Una delle chiavi di lettura dell’industria 4.0 applicata alla migliore organizzazione e alla reingegnerizzazione dei processi è rappresentata dalla trasformazione digitale: le tecnologie abilitanti 4.0 consentiranno alle nostre imprese di essere più competitive e di abbattere i costi di produzione.
Ma per realizzare questo sogno non basta acquistare la tecnologia, introdurre software in azienda o collegare sensori a macchinari: la trasformazione digitale infatti indica un insieme di cambiamenti che sono tecnologici, ma anche culturali, organizzativi, sociali, creativi e manageriali, associati con le applicazioni di tecnologia digitale.
Si tratta per lo più quindi di eseguire un lavoro di cambiamento sulle persone, che dovranno poi adottare le tecnologie, per realizzare un reale cambiamento che abbia un qualche impatto positivo sull’intera organizzazione aziendale.
Le aziende che approcciano ad un progetto di trasformazione digitale devono necessariamente far accompagnare l’acquisizione di tecnologie digitali con percorsi specifici di formazione, affiancamento, addestramento, ma soprattutto di modifica dell’atteggiamento verso l’operatività quotidiana ai propri lavoratori e manager.
Ciò è vitale affinché l’investimento non sia vano o non porti che a risultati di applicazione parziale, coinvolgendo attivamente gli utilizzatori delle tecnologie e supportandoli nel realizzare il necessario cambiamento mentale per raggiungere gli obiettivi desiderati dall’azienda.
Insomma nell’era delle tecnologia digitale l’uomo torna, più che mai, ad essere al centro di qualsiasi intervento di riorganizzazione aziendale, che si può realizzare soltanto attraverso quello che conosciamo come “change management”.
Il cambiamento deve però essere autentico, e non superficiale, per poter raggiungere lo scopo che la trasformazione digitale nell’era dell’industria 4.0 si prefigge.
Il tema dell’ autenticità del cambiamento è stato oggetto di studio da parte di Paul Waztlawick, psicologo e filosofo austriaco appartenente alla Scuola di Palo Alto, tema che affronta in uno dei suoi scritti, “Change – Sulla formazione e la soluzione dei problemi” (1974) tradotto ed edito in Italia dalla Casa Editrice Astrolabio.
Waztlawick teorizza l’esistenza di un doppio livello di cambiamento: il cambiamento #1, o cambiamento fittizio, un cambiamento che tocca e si risolve ai livelli logici inferiori e un cambiamento #2, il cambiamento reale che ha origine e scaturisce dai livelli logici superiori.
Ecco quindi spiegata per la prima volta l’inconsistenza e l’insuccesso di cambiamenti indotti da pratiche che volgono ad una modifica puramente formale, estetica, inautentica del comportamento, ad esempio richiedendo sforzi di tipo normativo, di volontà, di sacrificio.
Per capire meglio questo concetto ed applicarlo a casi di gestione del cambiamento in azienda dobbiamo ricordare che il cambiamento (o la persistenza), secondo Waztlawick, fa parte di una dicotomia che ha nella persistenza (o nel cambiamento) il proprio termine opposto e complementare.
Il Mental Research Institute di Palo Alto, di cui faceva parte, tra gli altri Paul Waztlawick , propongono come una valida struttura concettuale della dipendenza caratteristica fra persistenza e cambiamento una teoria matematica: la “Teoria dei Gruppi”
La Teoria dei Gruppi nasce dalle considerazioni e dai pensieri che Evariste Galois, un matematico francese di vent’anni, riuscì a fissare su pochi fogli la notte prima di essere ucciso in duello per motivi politici, nel 1832.
La teoria dei gruppi ci mostra come un cambiamento che può verificarsi all’interno di un sistema, di fatto lo fa rimanere invece immutato: il cambiamento, introdotto dall’operazione e dalle proprietà del gruppo stesso, non produce niente di esterno al gruppo e tantomeno un cambiamento delle regole che lo governano. Questo tipo di cambiamento viene chiamato dagli stessi autori “Cambiamento1” e risulta chiaro il suo stretto legame con la persistenza; persistenza che si riferisce alla struttura del sistema in cui esso agisce. Un sistema che può passare attraverso tutti i suoi possibili cambiamenti interni senza provocare un cambiamento del sistema stesso, si dice che è preso in un gioco senza fine e non può generare al suo interno le condizioni del proprio cambiamento.
Un esempio tipico di Cambiamento 1 è quello in cui si ha nelle situazioni in cui la soluzione tentata per risolvere un problema diventa il problema stesso. In questo tipo di cambiamento, che in azienda, come nella gestione della vita quotidiana di ognuno di noi, va un po’ per la maggiore, si cerca di cambiare una situazione muovendoci all’interno della cornice di un certo sistema.
Ad esempio il proibizionismo come soluzione al problema delle droghe pesanti può rivelarsi anche peggio del male iniziale: possono nascere un’industria e un commercio clandestini in mano alla malavita che riutilizza i guadagni per altre attività illegali e per la corruzione politica (cosa già accaduta con il proibizionismo degli alcolici negli anni ’20 del 1900 in America), vengono immessi sul mercato prodotti di qualità scadente o addirittura letali. Anche se le leggi proibizionistiche vengono imposte con maggiore fermezza non si ottengono i cambiamenti desiderati e alla fine la “soluzione” diventa il peggiore dei due mali: prima c’era tra la popolazione un certo numero di tossicodipendenti; ora invece, oltre ai tossicodipendenti, occorre far fronte ad un problema di organizzazioni criminali che controllano tutti i traffici illegali di droga e con i soldi acquisiti da questo commercio illecito, corrompono e riescono a tenere in scacco il governo di un Paese.
E’ evidente che questo tipo di cambiamento non porta a grandi risultati o a benefici. Se lo applicassimo in azienda per un processo di revisione organizzativa, magari in chiave digitale, l’investimento fatto sul software, sull’hardware e sulla formazione al personale, sarebbe probabilmente in gran parte buttato al vento.
Il cambiamento di tipo 2, al contrario, comporta uno spostamento, una rottura o una trasformazione, della massima importanza teorica e pratica, perché ci darà la possibilità di uscire fuori da un dato sistema.
Un esempio pratico che ci racconta lo stesso Waztlawick, nel suo libro “Change”, è quello relativo all’incubo: un uomo può avere un incubo e per fuggire immagina, nel sonno, di poter correre, saltare, fuggire, etc. ma rimane il fatto che, per quanto possa trovare soluzioni al problema, resta sempre “intrappolato” nell’incubo (cambiamento 1), mentre se si sveglia ha realizzato un vero cambiamento di stato (cambiamento 2).
Per comprendere meglio come si può realizzare un reale e fruttuoso cambiamento in azienda portiamo un altro esempio che fa Waztlawick riferendosi al problema dei 9 punti.
Se chiedessimo a chiunque, che non conosce già la soluzione a questo problema, di unire con 4 linee rette tutti i punti dello schema riportato qui sotto, senza mai staccare la matita dal foglio, quasi sempre non riuscirebbe a trovare la soluzione alla questione posta. Provate pure per qualche minuto a risolverlo.
Se dovessimo ripensare alla teoria del cambiamento 2 di Watzlawick potremmo quindi dire che le persone non riescono a risolvere il problema perché sono “intrappolate” nel sistema: tutti immaginiamo di dover congiungere le 4 linee all’interno di un quadrato virtuale che la nostra mente crea quando visualizza i 9 punti. In effetti però nessuno ha mai detto che i 9 punti debbano formare necessariamente un quadrato entro cui dobbiamo muoverci.
Stiamo quindi ragionando, nella risoluzione del problema, in un’ottica di cambiamento 1: cerchiamo la soluzione dentro un certo sistema, muovendoci al suo interno, cercando di trovare la soluzione nel problema stesso. Nulla di più errato.
Per risolvere il problema nell’ottica del cambiamento 2, è necessario modificare l’atteggiamento verso il sistema in cui si trova circoscritto il problema stesso.
E’ sufficiente tracciare quindi le 4 linee all’esterno del “quadrato immaginario” che la nostra mente ci suggerisce di formare quando leggiamo i 9 punti sul monitor e scopriremmo così di poter risolvere il problema dato, attraverso la sua visione “fuori dal sistema”.
Edward De Bono, nel suo “pensiero laterale”, ha descritto questa capacità di superare il “pensiero auto-limitante” nel risolvere problemi grazie ad una visione del mondo da un’altra angolatura.
Il change management in azienda deve quindi servirsi di persone e di strumenti che riescano a far cambiare prospettiva di visione alle persone per poter davvero rendere utile l’investimento in tecnologie che impattano sulla revisione dei processi organizzativi, altrimenti qualsiasi sforzo economico e di tempo fatto nell’impresa per raggiungere migliori risultati di efficienza o di efficacia di processo, potrebbe essere del tutto, o quasi, vano.
L’attività di cambiamento 2, di supporto e feedback continuo al personale, di coinvolgimento e responsabilizzazione a tutti i livelli, specie verso gli utilizzatori finali di una certa tecnologia, non può assolutamente prescindere dall’avvio di un progetto di trasformazione digitale, solo così vi sarà un equo ritorno sull’investimento.
Il ruolo dei nuovi “innovation manager” di cui sentiamo molto spesso parlare negli ultimi mesi, anche per il futuro bando del MISE, che finanzierà in parte il loro avvento in azienda, per accompagnarla alla digital transformation, dovrà necessariamente essere multidisciplinare e non potrà gestire senza applicare tecniche di “change management” alcun progetto di trasformazione digitale, facendone quindi una figura ibrida a metà tra un esperto in tecnologie, un conoscitore profondo di organizzazioni e di sistemi di gestione aziendali, un coach e facilitatore per realizzare il progetto affidatogli.
Il Metodo della Rete di imprese Qualità 4.0, che divulgano la cultura digitale nei sistemi di gestione aziendali, vede in questa figura travasarsi l’ormai obsoleto “responsabile della qualità”, che dovrà mettere in campo nuove competenze e conoscenze, non soltanto tecniche o relative al mondo del digitale, ma soprattutto trasversali e di natura “soft” per fornire un reale valore aggiunto all’azienda in cui opera sia come consulente esterno sia che si trovi in un team di lavoro interno.