Partiamo da una piccola nota storica: tutti sappiamo che la plastica è considerata uno dei materiali più versatili in diversi settori, grazie al suo basso costo e all’elevata resistenza al degrado. Per questo motivo, la produzione di materiali plastici si è diffusa a partire dalla seconda metà del XX secolo, con un aumento esponenziale della domanda e e quindi dell’offerta nei più disparati settori, portando anche al problema dello smaltimento e del riciclaggio dei materiali plastici, specie perché è preferita nelle produzioni del monouso (ad es. bicchieri, posate, piatti, etc.).
Plastiche e microplastiche disperse nell’ambiente
Gran parte della plastica, dopo il suo utilizzo, viene scaricata e accumulata nell’ambiente dove rimane per un lungo periodo, proprio perché di suo resiste al degrado, contribuendo così a uno dei più importanti problemi ecologici del nostro tempo.
Sono note a tutti le grandi masse di plastica ammassate nei mari e sulla terra: pensiamo ad esempio alla Great Pacific Garbage Patch, che consiste in una enorme area di oltre 1,6 kilometri quadrati, composta da rifiuti plastici che galleggiano nell’Oceano.
Oppure il noto deserto di Acatama in Cile dove si stima siano accatastate 40.000 tonnellate circa di vestiti che arrivano dal Nord del Mondo e sono qui stoccate in una discarica a cielo aperto e di tanto in tanto bruciate per guadagnare un pò di spazio, liberando fumi tossici nell’aria, perché gli abiti sono quelli composti da materiali plastici del Fast Fashion.
Per contenere la contaminazione dalla plastica, l’Unione Europea (UE) ha emanato la Direttiva (UE) 2019/904 (Direttiva SUP), che vieta la plastica monouso che è stata adottata anche in Italia, con non poche discussioni, con il Decreto Legislativo n. 205 dell’8 novembre 2021.
Ripercorrendo i contenuti di uno studio dell’Istituto Superiore della Sanità disponibile online, in base alle loro dimensioni, i rifiuti di plastica possono essere classificati come macroplastiche (> 25 mm), mesoplastiche (< 25 mm), microplastiche (< 5 mm) e nanoplastiche (< 1 µm). Negli ultimi anni, la ricerca in materia di protezione ambientale si è concentrata principalmente sulle micro e nanoplastiche, che a causa della loro ampia diffusione e dei danni diretti e indiretti agli organismi viventi (incluso l’uomo), potrebbero causare problemi attraverso il contatto diretto, l’esposizione atmosferica e l’ingestione di cibo contaminato, a causa delle loro dimensioni limitate.
Microplastiche nei tessuti della Moda Low Cost
Le microplastiche comprendono anche particelle di forma irregolare, pellicole sottili e fibre sintetiche di vario tipo, come quelle utilizzate per l’abbigliamento (ad esempio, nylon e fibre acriliche); queste ultime, in particolare, sono le più difficili da isolare e quantificare. Sempre nello studio dell’ISS sopra citato e linkato in questo articolo viene riportato che a seconda della loro origine, le microplastiche possono essere suddivise in primarie e secondarie. Le microplastiche primarie sono spesso definite come quelle prodotte intenzionalmente nella gamma di dimensioni e proprietà funzionali richieste per l’uso previsto. Le microsfere, descritte in precedenza, rientrano in questa categoria. Le microplastiche secondarie, invece, che sono le più numerose, sono il prodotto della frammentazione di oggetti di plastica più grandi, come quelli dispersi in mare, da parte di microrganismi o agenti chimico-fisici.
Sappiamo che le acque reflue raccolgono vari tipi di microplastiche utilizzate ovviamente nell’industria, ma anche in casa (fibre tessili sintetiche perse durante il lavaggio, prodotti di usura in materiali plastici, guarnizioni, vernici e microsfere).
Le microplastiche in particolare hanno un effetto negativo sull’ambiente marino in cui vanno a depositarsi dopo essere state scaricate dalle nostre lavatrici (e non solo ovviamente). Spesso trasparenti, questi frammenti assorbono e concentrano gli inquinanti disciolti nel mare e rilasciano additivi plastici. Colpiscono tutto, dal plancton ai grandi animali marini come le balene; sono ormai parte integrante e inevitabile della dieta dei pesci che finiscono sulle nostre tavole.
Secondo l’International Union for Conservation of Nature (Iucn), sugli 1,4 milioni di miliardi di microfibre presenti negli oceani, il 35% deriva dal lavaggio dei capi d’abbigliamento sintetici nelle nostre lavatrici, richiamato in un articolo apparso sul quotidiano La Repubblica e questo quantitativo equivarrebbe a oltre 50 miliardi di bottiglie di plastica.
L’acrilico, presente in percentuale in quasi tutti i nostri vestiti, è uno dei tessuti più inquinanti: rilascia circa 730.000 minuscole particelle per un lavaggio da 6 Kg di bucato in lavatrice, cinque volte di più del poliestere, secondo uno studio della Università di Plymouth citato in un articolo dell’APS Vesti la natura. Per ridurre il problema, i vestiti dovrebbero essere lavati meno frequentemente, a basse temperature e con basse rotazioni. Entrambe le fibre sintetiche potrebbero essere sostituite da altre fibre naturali più sostenibili. Ma il filone della aziende appartenenti al cosiddetto “fast fashion”, produce collezioni sempre nuove composte da abiti economici e di breve durata, destinati per lo più ad un pubblico di teenager, ma non solo e si basa principalmente sull’utilizzo di queste fibre, perché sono economiche e permettono di mantenere i prezzi bassi.
Non solo inquinamento dovuto ai tessuti low-cost: il problema della delocalizzazione della produzione di abbigliamento
La delocalizzazione dei processi produttivi anche nel settore della Moda è iniziata con la crescita del mercato globale. A partire dagli anni ’70, la produzione di abbigliamento si è spostata dall’Europa occidentale e dal Nord America verso il Sud del Mondo.
Le aziende di questi paesi che producono milioni di capi di abbigliamento al giorno sono chiamate “sweatshop”. In questo video apparso sul canale Youtube di Nova Lectio, si parla senza troppi giri di parole, di salari a cottimo di pochi centesimi per capo per ogni lavoratore e di richieste che arrivano fino a 500 capi pro capite da produrre giornalmente.
Per ricordare uno degli esempi più emblematici, ci spostiamo in Bangladesh. Il paese è il secondo produttore di abbigliamento al mondo, con quasi 5 milioni di persone che lavorano nell’industria dell’abbigliamento e più di 5.000 fabbriche che producono abiti per i marchi occidentali.
Un fatto di cronaca, che non è passato affatto inosservato, ha sconvolto il mondo della moda e ne ha messo a nudo su vari media il modello di business su cui fanno leva alcune produzioni di questo settore: a Savar, un sottodistretto nell’area della capitale Dhaka, il 24 aprile 2013 è crollato il Rana Plaza. L’edificio di otto piani, che ospitava diverse fabbriche tessili di marchi internazionali, è crollato a causa di danni strutturali. Tra i lavoratori presenti in quel momento dell’incidente le vittime furono 1.129 e 2.500 circa i feriti.
Il problema della Responsabilità Sociale delle imprese manifatturiere che producono abbigliamento a basso costo è un altro elemento da non sottovalutare, ma torniamo alle microplastiche e ai possibili problemi per la salute dell’uomo, dopo aver parlato dei danni che già stanno facendo all’ambiente.
Possibili effetti delle microplastiche sulla salute umana
Torniamo allo studio dell’Istituto Superiore di Sanità in cui viene evidenziato come l’ampia diffusione di rifiuti plastici e microplastiche nell’ambiente ha portato, negli ultimi anni, anche la comunità scientifica a interrogarsi sui possibili effetti nocivi per la salute umana. A questo proposito, gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) hanno redatto un documento, disponibile online seguendo questo link, riguardante le prove relative alla presenza di microplastiche nell’acqua potabile (comprese le sue fonti) e alla loro rimozione.
In questo documento si ribadisce che le microplastiche, attraverso la contaminazione dell’acqua, dell’aria, dei vegetali, animali ed altri elementi dell’ecosistema, possono raggiungere gli esseri umani e interagire in diversi modi con l’organismo. Al momento, l’OMS non ritiene che ci siano prove sufficienti per dimostrare che l’ingestione di microplastiche sia legata a un problema per la nostra salute.
Tuttavia, come affermato da alcuni autori, e come ribadito nello studio richiamato in questo articolo dell’Istituto Superiore della Sanità, questa affermazione non deve essere decontestualizzata in alcun modo per portare alla conclusione errata dell’assenza di effetti sulla salute umana dovuti alle microplastiche.
Infatti l’OMS riconosce, in ogni caso, che esistono incertezze significative riguardo alla qualità e alla portata dei dati sull’esposizione umana alle microplastiche nell’acqua potabile e che le attuali conoscenze sugli effetti tossicologici richiedono l’acquisizione di prove scientifiche più solide. La difficoltà di stimare una relazione causa-effetto per le microplastiche è dovuta, ancora una volta, alla loro estrema eterogeneità e agli innumerevoli modi in cui potrebbero essere dannose per l’uomo.
Secondo lo studio dell’ISS che cita a sua volta altre fonti, tra cui lo stesso OMS, sarebbero state ipotizzate due possibili modalità di interazione tra microplastiche e salute umana. La prima è definita tossicità diretta e rappresenta la possibilità che le microplastiche possano causare danni a causa delle loro proprietà come particelle. Questa forma di tossicità è legata alla forma e alle dimensioni delle particelle, che ne influenzano il possibile assorbimento. Infatti, solo le particelle più piccole di 150 µm sembrano essere assorbibili dai tessuti umani e produrre effetti sistemici. Le particelle più grandi, invece, potrebbero esercitare effetti principalmente locali nei sistemi respiratorio e gastrointestinale, che sono, di fatto, le loro vie di ingresso nell’organismo. In questo senso, l’intestino è considerato l’organo più soggetto all’azione tossica delle microplastiche più grandi, dato che le particelle di queste dimensioni lo attraversano senza essere assorbite.
I danni provocati dalle microplastiche potrebbero non essere attribuibili solo alle particelle stesse, ma anche a fenomeni di tossicità indiretta, ossia alla possibilità che le microplastiche possano agire come vettori di altri prodotti tossici. Questi ultimi possono essere rilasciati nell’acqua in seguito alla degradazione della plastica e contaminarla. Il profilo tossicologico delle sostanze assorbibili, degli additivi e degli agenti patogeni legati allo sviluppo del biofilm è più noto, ma al momento l’OMS suggerisce un basso rischio di tossicità da questi contaminanti legati alle microplastiche. Sono tuttavia necessari ulteriori studi per comprendere meglio la portata di questi potenziali fenomeni di tossicità diretta o indiretta nei confronti dell’uomo.
Nuovi sviluppi nelle prossime normative europee sulle microplastiche e la salute umana
Le microplastiche sono incluse nella nuova Direttiva europea (Direttiva 2020/2184) sull’acqua potabile come contaminanti emergenti. La direttiva ha introdotto un nuovo tipo di approccio, basato sulla redazione di una “lista di controllo” di sostanze (per le quali non sono stati definiti limiti o valori soglia) con l’obiettivo di affrontare il problema in modo flessibile e dinamico. Allo stesso tempo, considerando la difficoltà di acquisire dati affidabili sulla contaminazione delle acque da parte delle microplastiche e, di conseguenza (per le variabili associate al campionamento e all’analisi), sull’esposizione umana, la Direttiva subordina l’inclusione del parametro nella lista di controllo alla definizione di una metodologia di misurazione delle microplastiche che la Commissione Europea dovrà emanare entro il 12 gennaio 2024.
Slow Fashion: come contribuire a ridurre le microplastiche generate dalle lavatrici e a rendere la moda più sostenibile
Un articolo apparso su La Repubblica cita un decalogo per consentire a tutti di gestire meglio il problema delle microplastiche derivanti dal lavaggio dei tessuti:
- Optare per tessuti naturali o misti piuttosto che per acrilico e poliestere. I tessuti compatti e a maglia stretta sono meno inquinanti perché la loro struttura è più resistente ed è più difficile che si sfilacci durante il lavaggio.
- Tra le fibre sintetiche, preferire ad esempio il nylon 66, una poliammide più resistente.
- Scegliere vestiti di qualità che possano durare nel tempo rispetto a quelli a basso costo. Anche l’abbigliamento di seconda mano può essere un’alternativa per acquistare prodotti di alta qualità a un prezzo inferiore.
- Lavare a basse temperature è utile per ridurre il rilascio di microplastiche che si disperdono maggiormente nei primi otto lavaggi. Inoltre, le basse temperature riducono il rilascio di colore, il consumo di energia e permettono ai vestiti di avere una vita più lunga.
- Lavare a pieno carico non solo per risparmiare acqua ed energia, ma anche per ridurre il numero di microplastiche dovute allo sfregamento dei capi.
- Impostare una velocità di centrifuga bassa ed evita i programmi troppo lunghi.
- Usare detersivi delicati ed ecologici che danneggiano meno i tessuti.
- Usare l’ammorbidente, che può essere un valido alleato: riduce di oltre il 35% la rottura delle fibre e quindi il rilascio di microplastiche.
- Limitare l’uso dell’asciugatrice.
- Usare filtri che raccolgono le microplastiche prodotte dagli indumenti.
Le fibre tessili naturali come lana, lino, canapa, iuta, cachemire, seta e cotone, tutte presenti nell’ambiente marino, non sono considerate pericolose per l’ecosistema, i pesci e la vita marina in generale, poiché queste microfibre sono facilmente biodegradabili a differenza delle microplastiche, pur non essendo ad impatto zero in ogni caso, ma sicuramente preferibili alle fibre sintetiche.
I produttori si muovono in base alla domanda e se la sensibilità dei consumatori nei confronti dell’abbigliamento cambia a favore della moda slow, la logica dell’offerta può necessariamente cambiare.