Roma 2 luglio 2023. Lo scorso Aprile è apparso sul sito di Cassa Depositi e Prestiti un interessante studio sul tema “deglobalizzazione” e ritorno (reshoring) alle produzioni manifatturiere e dei relativi traffici marittimi dalla Cina verso l’Europa (in particolare quella dell’Est) e nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Deglobalizzazione: un processo in atto da 15 anni
Il documento di CdP fa riferimento a dati disponibili fino a marzo 2023 e fa trasparire una tendenza verso la deglobalizzazione come fenomeno non recente, ma che inizia almeno da 15 anni ormai con il declino della “globalizzazione” osservata attraverso due macro fattori:
- la riduzione del peso del commercio internazionale sul PIL mondiale;
- l’esaurimento del processo di frammentazione delle catene globali del valore.
Le motivazioni della “deglobalizzazione” non sono quindi da ricercare nel recente bisogno dei Paesi Occidentali di rendersi indipendenti dalla “Fabbrica del mondo” (la Cina) e dalla sua corsa all’accaparramento di tutte le risorse e le materie prime mondiali degli ultimi due decenni.
Lo studio ha dimostrato, dati alla mano, come a partire dalla crisi finanziaria globale del 2008, al contrario di quanto avveniva nel decennio precedente, il rapporto tra commercio e PIL mondiale si è attestato su un trend decrescente, un fenomeno in costante crescita negli anni successivi.
In realtà questo fenomeno, osservano gli studi pubblicati da CdP, deriva da un lato dall’ambizione della Cina di affermarsi come potenza industriale sempre meno dipendente da tecnologie importate dai Paesi Occidentali e dall’export (di solito con grande competitività nei costi all’origine dei prodotti) come leva del proprio sviluppo e dall’altro lato, al ripensamento da parte dell’Occidente delle dipendenze estere in filiere strategiche per la sicurezza delle singole Nazioni.
Reshoring: il rientro della manifattura per accorciare le filiere
L’Occidente quindi punterebbe, e negli ultimi 3 anni con maggior vigore e decisione, verso un ritorno alle produzioni industriali in casa (tecnicamente “reshoring”) un tempo delocalizzate in Estremo Oriente, cominciando a far radicalizzare un nuovo fenomeno della regionalizzazione delle produzioni, eventualmente delegandole a Paesi più prossimi ed amici, quando non fosse sostenibile gestirle direttamente sul territorio nazionale.
I fatti sono oggi sotto gli occhi di tutti: la rottura negli equilibri politici, e quindi anche economici, internazionali che hanno accompagnato la fase espansiva della globalizzazione appare oggi come un dato assodato. Basti pensare alla crisi Russo-Ucraina e tutte le criticità riscontrate subito dopo su costi energetici e di materie prime, o ancora pochi anni prima al problema del Covid-19 con la chiusura della Cina al mondo e la conseguente difficoltà nel reperimento di prodotti, semilavorati, materie prime.
La re-industrializzazione selettiva come strategia per l’Occidente
La cosiddetta re-industrializzazione selettiva è ormai indicata esplicitamente, come ci dice lo studio pubblicato da CdP testualmente, come obiettivo sia delle politiche statunitensi (da ultimo nell’Inflation Reduction Act approvato ad agosto 2022 e in corso di implementazione), sia europee (è dello scorso febbraio la presentazione del Green Deal Industrial Plan da parte della Commissione), per accompagnare le transizioni digitali ed ecologiche, non solo dal lato degli incentivi alla domanda, ma anche da quello dello sviluppo di capacità produttive e tecnologiche autonome da parte dell’Occidente. Ne è un esempio lampante il ritorno di investimenti per aperture di aziende di produzione di microprocessori ed altri prodotti legati alla micro elettronica e all’information technology in generale, praticamente tutta data in mano alle manifatture dell’Estremo Oriente, Cina compresa nel corso degli ultimi due decenni.
Il centro del Mondo: Mediterraneo di nuovo protagonista
E’ così che il Mediterraneo torna al centro del mondo, non tanto per la presenza dell’Europa che vi si affaccia sulla sponda Nord, ma per i Paesi del Nord Africa, vicini all’area Euro e sicuramente luoghi dove ancora le condizioni economiche sono decisamente favorevoli per l’abbattimento dei costi di produzione e quindi dove si può più facilmente avviare progetti di cooperazione industriale da parte dell’Occidente.
Non solo il Mediterraneo, ma anche i Paesi dell’Est Europa, sia quelli che sono attualmente aderenti all’Eurozona, ma anche e forse soprattutto, quelli che ancora ne sono fuori (come ad esempio Bosnia e Serbia).
I dati presenti nello studio pubblicato da Cassa Depositi e Prestiti, la cui sintesi è raggiungibile attraverso questo link, denotano, come riportato nella figura qui sotto tratta dal medesimo documento, gli ambiti di attuale specializzazione dei Paesi che non fanno parte dell’Eurozona e che si affacciano sul Mediterraneo, che potrebbero essere presumibilmente appetibili per i bisogni produttivi delle nostre aziende e dei nostri consumatori.
Inoltre si evince nel documento di CdP l’appetibilità riferita al costo del lavoro: infatti i salari medi in quegli Stati vanno da circa 3.500 dollari annui in Albania fino a 10.500 dollari annui circa in Turchia, con una serie di valori intermedi negli altri Stati rientranti nell’area di potenziale interesse di cooperazione industriale dell’Occidente.
L’attivazione di una politica di regionalizzazione dell’industria nell’area del Mediterraneo e la ricerca di strategie per accorciare la filiera in quei Paesi non è priva di ostacoli: infatti è noto come la instabilità politica e i mutamenti socio-economici in questi Stati siano aree di rischio necessariamente da prendere in considerazione da parte del mondo Occidentale.
Di nuovo un “Mare Nostrum”?
Il sostegno agli investimenti verso infrastrutture (ad esempio portuali in primis) verso questi Paesi dell’area del Mediterraneo da parte dell’Occidente è fondamentale per realizzare la politica di regionalizzazione dell’industria.
Questo tema, secondo il team di ricerca che ha elaborato il documento di CdP, sembrerebbe poter dare anche dei vantaggi inaspettati al sistema logistico italiano, specie proprio per le attività portuali e di movimentazione merci conseguente.
Si tratta infatti di un settore nel quale l’Italia può far valere una posizione di eccellenza, essendo il primo Paese in Europa per volume di merci movimentate, con una quota di mercato pari al 14% del totale, davanti a Paesi Bassi 13,5%, Spagna 10% e Francia 7%, ci dice lo studio condotto per CdP, che ha però sofferto della concorrenza della Grecia (il Porto del Pireo) e dei porti Spagnoli.
Una nuova politica industriale incentrata invece sul Mediterraneo darebbe nuovi stimoli al nostro sistema Paese, sia da un punto di vista manifatturiero, ma anche di maggiori volumi di scambi marittimi gestiti e di rafforzamento del ruolo del Paese che in questo mare occupa una posizione decisamente centrale, consentendo nel futuro di ritrovare forse una leadership economica e politica che da sempre abbiamo ricercato.